"Per ignota destinazione" quinta parte
di Piero Farina

Auschwitz-Birkenau, campo di sterminio, domenica 25 giugno.

Con i bagagli a mano attraversiamo a piedi le rotaie. Sotto la pensilina della stazione ci attende una macchina noleggiata per noi. Danilo mi chiede se voglio puntare allo stabilimento principale dove, in una sorta di museo degli orrori, si possono riprendere cumuli di occhiali tolti ai deportati, montagne di capelli recuperati dai loro corpi, protesi dentarie, foto  di corpi straziati, di deportati suicidi, giustiziati, morenti … Guardo Christina, Danilo, Filippo, per qualche istante cerco di trovare in loro la conferma di una decisione che solo io posso prendere. Poi vedo Piero che ci attende a qualche passo di distanza e tutto improvvisamente mi appare chiaro.

No, non desidero affatto riprendere tutto questo.

Nessun documento, nessuna immagine, nessun oggetto che mostri l’incommensurabile supplizio può avere maggiore forza e può dare maggiori informazioni più di quanto possa Piero con l’intensità del suo sguardo, nulla può fare luce sugli orrori del campo più della sua pietà, nulla può dare a tutti noi più consapevolezza del suo dolore.

Arriviamo di fronte al campo.

Chiedo alla direzione d’aprire la porta principale dove per anni sono transitate le tradotte con milioni di deportati. La porta si spalanca e davanti a noi si scorge l’intero piazzale di arrivo dei treni. Filippo applica un radiomicrofono al bavero della camicia di  Piero. Piero lo lascia fare e resta immobile, i piedi incollati alle traversine della ferrovia. Danilo carica in macchina una nuova cassetta, mi guarda per un istante, poi si pone dietro alle spalle di Piero. Christina ci osserva da qualche metro di distanza. Con un segno del capo chiedo a Danilo di premere lo starter di partenza.

Lampeggia la luce rossa e il nastro inizia a girare.

Piero non si muove. Passano alcuni secondi, forse minuti. Nessuno di noi osa parlare. D’un tratto Piero estrae la kippàh dalla borsa che ha con sé e con gesto che rivela d’aver pensato lungamente a quel momento, se la pone sul capo avanzando lentamente lungo la doppia riga lucente dei binari. L’obiettivo della telecamera è quasi appoggiato alle spalle di quest’uomo che, passo dopo passo, s’inoltra nel campo. Si guarda attorno, prima a destra, poi a sinistra come volesse trovare luoghi  che sono già conosciuti, collocare il proprio corpo in un punto preciso di quell’indefinito spazio, riascoltare parole che da troppo tempo custodisce nelle proprie orecchie e che nessuno di noi può ascoltare, rivedere volti presenti nella propria mente, ma perduti per sempre dopo l’ingresso nel campo di sterminio.

Le sue labbra pronunciano parole senza suono, i suoi occhi non vedono più le rotaie, il marciapiede che prosegue oltre il limite del piazzale.  Per alcuni minuti Piero si guarda dentro, sempre più a fondo, fino a perdere contatto col  mondo esterno, fino a bloccare i passi sulle traversine e ascoltare soltanto il suo silenzio.

Per ottenere che Piero parli, che mi permetta di ascoltare le sue parole, di capire quanto ha dentro di sé, faccio tacere la mia sensibilità, ignoro la voce della mia coscienza. Tradisco gli accordi che abbiamo fatto prima di partire e per la seconda volta cerco di avere una risposta, una parola che spezzi in qualche modo il suo livido silenzio.

Alla mia destra, di fronte al marciapiede che corre lungo le rotaie di questa stazione dove si arrivava senza più partire, è collocato un cartello con una foto che mostra la discesa dei deportati dalle tradotte.

Evito di far riprendere quell’immagine scolorita, priva di forza.

In quest’istante sono le parole di Piero che danno respiro, anima e carne alle ombre, alle visioni che escono dalla sua bocca.

Anche Nedo Fiano, nell’intervista presso il campo di concentramento di Fossoli, evoca momenti tristemente incancellabili …

Sono scosso, ma cerco di mantenere il controllo delle mie emozioni. Mentre ci allontaniamo dalla banchina ferroviaria faccio a Piero altre domande. 

Piero ci fa strada camminando lentamente lungo le testate dei blocchi, accanto ai gruppi di baracche dove dormivano i deportati,  fino a raggiungere la n. 7, quella dove ha vissuto le prime settimane di prigionia. Entriamo.

Addossate alle pareti dell’edificio, lungo una cinquantina di metri, si vedono ancora i tavolacci sovrapposti a più piani dove giacevano i deportati al ritorno da una giornata di lavoro e di supplizio. Al centro, a dividere la baracca in due parti, si distingue ancora la condotta semidemolita della stufa che, oltre a distribuire l’aria calda per  mitigare il freddo dell’ambiente, aveva anche la funzione di sedile.

Attraversiamo l’esteso settore delle baracche dove  lo spazio è scandito da ordinati ed razionali blocchi geometrici, ripercorriamo la zona dove giungevano le tradotte e ci dirigiamo verso la meta finale del viaggio, il luogo dove spesso hanno vissuto gli ultimi momenti della loro vita coloro che giungevano qui, dopo l’appello del mattino, al sorgere di una giornata apparentemente come le altre.

Piero procede molto lentamente, ma senza indugi e sembra davvero che riesca a ricordare perfettamente la strada, senza in realtà averla mai percorsa fino in fondo, come avesse in mente un angolo del campo che ad ogni costo debba raggiungere.

È  mezzogiorno passato e lungo il sentiero che si snoda tra deformazioni del terreno e calcinacci ricoperti dall’erba non incontriamo una sola persona.

Rimango alcuni passi indietro e ho così modo di riflettere su quanto sto facendo. Il giorno è festivo, la giornata abbastanza calda, mi trovo in aperta campagna circondato dall’erba e da fiori  campestri di una ormai tarda primavera, nei pressi della cittadina di Oswiecim, in un campo completamente deserto, deserto e silenzioso. Se non fosse per le baracche disseminate lungo il percorso questo luogo non sarebbe molto diverso dai prati che ho visto in Baviera dal finestrino del treno, o da quelli che a Roma si scorgono dalle finestre di casa mia. Questo luogo è dunque assai simile al mio paese come probabilmente è assai simile la natura di chi ha vissuto qui da vittima o carnefice. Quanto è avvenuto avrebbe potuto riguardarmi da vicino. La considerazione mi sgomenta, ma Danilo mi richiama alle esigenze del lavoro che dobbiamo ancora terminare.

Ha montato infatti il cavalletto e chiede la mia opinione su quanto sta girando. Nell’inquadratura si notano in primo piano i reticolati curvi ad uncino verso l’interno del campo destinati ad impedire la fuga dei deportati e garantire l’inaccessibilità della zona.

Osservo Piero che è immobile, in piedi di fronte ad un profondo avvallamento del terreno.  È una fossa lunga pressappoco una trentina di metri, larga quindici o venti e profonda circa tre. Ai lati s’intravedono resti di mura cadute e dalla parte di uno dei due lati più brevi si distingue una rampa di terra che dal livello del prato giunge a quello della fossa. Un vuoto allo stomaco, un crampo mi prende alla pancia, un malessere del tutto fisico mi oscura la mente.  Penso d’avere intuito.

Vedo Piero sull’orlo della fossa, vedo la terra aprirsi di fronte ai suoi occhi, vedo le mura sgretolate dal tempo o forse volutamente abbattute, vedo la rampa di terra che prima era una scala, vedo i volti di quattro milioni di uomini, ammucchiati, compressi in quei pochi palmi di terra, confusi tra loro, vedo il padre, la madre, i due fratelli, il nonno, la sorella, lo zio di chi, in questo istante, sta sull’orlo di quella fossa, orrido senza fine che contiene la spenta anima del mondo.

Fermati ragazzo,
non correre per soddisfare la sete,
per vivere un’ora d’amore
per festeggiare un’inutile vittoria.
Oggi un uomo è tornato  
e ha reso sacra questa fossa
di sangue e dolore.
Perdonaci Piero,
perdono per quelli che sanno
per quelli che fingono di non sapere.
Ragazzo tutto questo ti riguarda,
A5506 è marchio che non si cancella
sulle mura di casa tua,
è ombra scura
negli occhi sereni di tua madre, 
è segno indelebile
sul volto ridente della tua donna,
è grido che sale verso il cielo
e non si disperde nell’eterno.

Piero in questo momento non vuole essere ripreso, tuttavia chiedo a Danilo d’accendere la telecamera. Devo fare il mio lavoro e dimenticare l’impegno che ho preso prima di iniziare il viaggio. Devo riprendere Piero, anche fosse soltanto per un istante, quest’uomo che dopo cinquant’anni, senza piangere, se ne sta immobile di fronte alla camera a gas dove i suoi sono stati uccisi.

Danilo non deve avvicinarsi troppo, non devo permettere che la camera lo ferisca, provo un forte senso di colpa per la mia spregiudicatezza, ma non chiedo a Danilo di tornare indietro, d’interrompere la ripresa …

È il mio lavoro, non posso chiudere gli occhi. Quel volto pieno di  dignità, forza, dolore. Tutta l’umanità finalmente, qui, posta di fronte a se stessa.