"Per ignota destinazione" quarta parte
di Piero Farina

Sul treno verso Monaco di Baviera.

Per decine di chilometri, durante i quali il treno fa poche fermate, Piero appare completamente assente. Vorrei  avvicinarmi a lui per farlo parlare, distrarlo un poco da quelli che devono essere i ricordi e le immagini come inchiodate nella sua mente. Ma sento di essere incapace di farlo, di trovare lo slancio perché le mie parole non appaiano come un diversivo inutile, privo d’intensità, privo di forza.

Piero ha il capo appoggiato al vetro e i lineamenti del suo volto compaiono e scompaiono seguendo le luci di posizione del tunnel che, per la velocità del treno,  ritmicamente s’accendono e si spengono in pochi istanti. Dal finestrino semiaperto oltre all’aria umida e fresca della galleria entra un rombo continuo di ferraglia, unito allo stridere delle ruote che in curva mordono le rotaie. Nello scompartimento la fioca luce azzurra della lanterna, già accesa per la notte ormai vicina, non ci rende del tutto riconoscibili. Siamo cinque corpi provati delle emozioni del viaggio, cinque forme indistinte che si raggomitolano sui sedili per cercare un po’ di riposo. Ma una lama di luce attraversa di nuovo il buio dello scompartimento e per un attimo distinguo il volto di Piero. È un’immagine che ha la forza di un flash, una fitta che da quando siamo partiti provo nel centro dello sterno, un crampo allo stomaco che  vorrei sciogliere, una visione dolorosa che vorrei cancellare dalla mia mente … Ho la sensazione improvvisa di avere già vissuto questo momento, di essermi già trovato in uno scompartimento come questo, lontano da qui, un po’ di tempo fa, forse a gennaio, nel ponente ligure, quando dovevo decidere se fare o no questo servizio, quando nulla sapevo sulla salute di mia madre, quando non avevo ancora stretto per un’intera notte le sue mani sudate … Lo scompartimento quel giorno era pieno di sole e dal finestrino entrava  il profumo del mare. È un pensiero che mi fa sentire più vicino a lui e senza parlare mi siedo accanto a Piero cercando di fargli sentire la mia presenza, la mia volontà di sostenerlo, in questo nostro viaggio verso l’inferno.

Giungiamo alla stazione di Monaco di Baviera quando è ormai notte fonda. Scendiamo dal treno, prendiamo un taxi e raggiungiamo l’albergo che abbiamo prenotato. Mi butto sul letto e m’addormento di colpo.

Dopo un paio d’ore mi sveglio e nella stanza sento la presenza di mia mamma  che quarantotto ore fa, a causa della mia partenza, non ho visto seppellire.


Monaco di Baviera, venerdì 23 giugno.

Un taxi ci lascia sotto la pensilina della stazione.

In questa stazione è tutto incredibilmente nitido, tirato a lucido come il bambino di quattro o cinque anni che, tenuto per mano, trotterella accanto a una donna con abiti dai colori vivaci.

Danilo lo riprende tenendo la telecamera a livello dei suoi occhi e mentre la madre nasconde il volto, negandosi all’obiettivo, il bambino sorride.

Ci attardiamo a fare le ultime riprese ma improvvisamente ci rendiamo conto che il nostro treno sta per partire. Chiediamo ad un ferroviere di indicarci  lo scompartimento dove abbiamo i posti prenotati. Ma è ormai troppo tardi e urlando qualcosa parte in italiano e parte in tedesco, il ferroviere ci impone di salire sul vagone più vicino. Carichiamo le valige in modo goffo e disordinato. Il bambino e la madre ci  guardano e ridono di gusto. Rispondo al loro sorriso con un gesto di saluto, ma il treno si è mosso e il bimbo non può vedermi.

Al fondo del marciapiede, dove scorgo ancora la coda del convoglio, il cartellone pubblicitario di quel giovane marinaio diventa sempre più piccolo, con quella bocca spalancata, con quel riso sgangherato.

Quello dove ci troviamo è un vagone postale, ce ne rendiamo subito conto perché è completamente privo di sedili e in un angolo della carrozza sono stati ammucchiati alcuni pacchi, accuratamente legati e sigillati con la ceralacca. Il vagone è completamente isolato dal resto del treno dato che le porte di comunicazione sono ermeticamente chiuse oltre che con la chiave anche con una catena e un lucchetto.

Dobbiamo arrenderci e viaggiare seduti sulle nostre stesse valigie. Dopo qualche chilometro Piero si alza e s’avvicina alle sbarre che blindano i vetri del convoglio.

Osservo Piero, la verdissima campagna bavarese che scorre al di là del finestrino, il volto di Christina che segue ogni movimento di Danilo con la telecamera, Filippo che gli puntella la schiena per evitare che perda l’equilibrio.

A terra, il piccolo monitor mostra i limiti dell’inquadratura. Di quinta, in primo piano, c’è la nuca di Piero, la sua mano destra quasi appesa alle sbarre del finestrino per compensare le oscillazioni del vagone, le inferriate che quadrettano un paesaggio da cartolina con mandrie al pascolo e fattorie disseminate a scacchiera fino all’orizzonte.

La suggestione dell’immagine è anche troppo evidente, così scontata da renderla forse debole e prevedibile. Chiedo a Danilo di girarla lo stesso. Cinquantadue anni fa Piero ha compiuto il medesimo percorso, ma questa campagna la vede certamente per la prima volta. Il vagone allora non aveva alcun finestrino. La tradotta era piombata.

S’apre il lucchetto, la catena scorre nel moschettone e sulla porta compare lo stesso ferroviere che sul marciapiede della stazione gridava parole parte in tedesco e parte in italiano. Ordina di lasciare il vagone postale e raggiungere lo scompartimento prenotato a nostro nome. Viaggiamo così fino a Vienna sulle poltrone imbottite della Deutsche Bahn, le Ferrovie della Repubblica Tedesca.

Quando a tarda sera giungiamo nella capitale austriaca la stanchezza prodotta dalle forti emozioni vissute negli ultimi due giorni non mi permette neanche di uscire dalla camera d’albergo dove abbiamo trovato alloggio. Dormo di un sonno pesante, senza sogni e solo alle prime ore dell’alba la sveglia automatica mi butta giù dal letto. Guardo fuori della finestra, la giornata è grigia e a quell’ora del mattino poche automobili percorrono le strade che s’incrociano attorno alla stazione. Quanto vedo mi dà un forte senso d’angoscia ma non è certamente la realtà che si distingue appena illuminata dai lampioni e dall’impercettibile primo chiarore del cielo a farmi provare questa sensazione.

L’angoscia  è dentro di me ormai da più di una settimana e per quanto cerchi di reagire buttandomi sotto la doccia è un sentimento che mi pesa e mi avvolge come un velo.

Discendo lentamente le scale dell’albergo e raggiungo il piano terra quasi senza accorgermene. Oggi sarà una giornata dura da vivere e difficili da percorrere saranno i chilometri che ancora restano prima di attraversare l’ultimo confine e giungere alla città polacca di Cracovia.

A mano a mano che il convoglio percorre il lungo nastro ferroviario, il treno sembra rallentare la sua marcia, faticare sempre più a raggiungere il confine polacco, un luogo che mentre dal finestrino osservo la campagna austriaca affatto colpita dai primi caldi dell’estate, sembra posto all’infinito, in uno spazio, per noi della troupe, senza dimensione, senza ricordi e senza tempo.

Ma ben altre sensazioni e sentimenti sta vivendo Piero, rinchiuso nella sua solitudine. Più Cracovia s’avvicina, più cerca di evitare con noi ogni forma di dialogo.

Una cappa di silenzio grava su tutti noi e nessuno s’azzarda più a proferir parola con un uomo che sta disseppellendo dalla propria anima mesi, giorni, ore, custodite nella propria mente da più di cinquant’anni.

Cracovia, sabato 24 giugno. 

A Cracovia giungiamo a metà pomeriggio. Piero si reca subito nella sua stanza. Noi quattro, prima di ritirarci a riposare nelle nostre camere, facciamo quattro passi nel quartiere dove si trova l’albergo. La zona che si estende attorno all’edificio assomiglia a un gigantesco dormitorio. Le case si susseguono le une alle altre senza un preciso carattere architettonico.

Svagato e insonnolito cammino più che altro per sgranchirmi le gambe. Non mi rendo conto così d’aver compiuto una deviazione e proprio quando mi accorgo di essermi allontanato e d’aver perso di vista Christina e gli altri, odo un canto provenire dalla parte inferiore di una scalinata che s’apre sul piano del marciapiede.

Le voci dolcissime di alcuni religiosi si diffondono all’interno di un  tempio non molto bello, ma pieno di gente.

Per alcuni minuti ascolto il canto sul limitare della scala e osservo i presenti.

Sono tutti molto presi dal rito, completamenti immersi nell’intensità della loro fede.

Torniamo all’albergo e dopo una cena leggera mi ritiro in camera.

Mi distendo sul letto e quasi senza accorgermene penso al tempio, ai volti della gente,  riascolto il canto.  Ho una gran voglia di piangere, ma non piango.

Alle cinque, dopo poche ore di sonno agitato mi risveglio. Dal quinto piano della mia camera, il paesaggio urbano composto da agglomerati di case basse e capannoni, ha un carattere particolarmente squallido.

La giornata ancore una volta si presenta uggiosa, con nuvole stratificate che ingombrano l’orizzonte, ma col trascorrere dei minuti prevale il chiarore diffuso di un’alba ormai estiva.

Curo con particolare attenzione l’aspetto della mia persona perché il luogo dove stamane andremo esige da me, anche in queste piccole cose, particolare attenzione e rispetto.

Alle sette incontro, nel sala riservata alla colazione, Christina, Danilo e Filippo.

Mi guardano senza farmi domande. È come se ciascuno di noi fosse sintonizzato sullo stesso pensiero, un pensiero che per tutta la notte ha lavorato dentro di noi.

Poco dopo, senza farsi sentire, giunge Piero. Ha con sé la borsa di pelle, l’apre e vi depone dentro la kippàh, lo zuccotto ebraico che gli ebrei indossano quando si prega, quando si entra in sinagoga, in qualsiasi altro luogo sacro o di fronte a chi si deve mostrare particolare rispetto.

Raggiungiamo col taxi la stazione locale e prendiamo posto su di un malandato trenino elettrico composto da una sola carrozza motrice.

Nella carrozza non c’è alcun passeggero: il conduttore si accorge della nostra presenza e come se aspettasse soltanto noi per partire,  manovra una grossa leva di comando e fa muovere il mezzo. Danilo accende subito la telecamera e non la spegnerà fino a quando, dopo circa sessanta chilometri, saremo giunti ad Oswiecim. Nel vagone ci sono soltanto alcuni sedili di legno con dei tavolini a ribalta su cui spiove la luce dei finestrini.

Piero siede, incrocia le mani sul tavolino, fissa lo sguardo sulla campagna e, per quasi un’ora, per l’intero tragitto  che  ci  separa  dalla piccola città polacca, resterà quasi del tutto immobile.

Sul quadrante di uno strumento che occupa la parte anteriore del vagone una lancetta indica la velocità con cui ci stiamo muovendo, quarantotto chilometri all’ora. La motrice cigola, sembra contorcersi seguendo le deformazioni delle rotaie; nello scompartimento noi ci muoviamo nel più completo silenzio. Con Danilo ci comprendiamo ormai con un semplice cenno del capo né d'altronde nessuno di noi oserebbe dire una parola per non disturbare la fissità e il silenzio di Piero. Lo sconquassato vagone mi appare come un tempio, un luogo sacro dove anch’io posso pronunciare una preghiera, una preghiera laica.

Nell’inquadratura il volto e gli occhi di Piero sono completamente immobili, come immobile è la bocca, immobili le dita incrociate delle sue mani e così sembra anche il suo respiro. Forse Piero è in attesa che nella campagna bagnata da una pioggerella sottile compaia qualcuno o qualcosa che lo aiuti ad andare avanti, a prendere atto di quanto è accaduto. Io non riesco a togliere lo sguardo dal suo volto …

Ragazzo che alla stazione Termini
correvi con la bottiglia di minerale in mano,
non aver fretta, fermati e osserva,
afferra l’occasione per capire,
alza gli occhi dalle pagine del giornale
e per qualche ora dimentica
la gioia dei tuoi anni.
A5506 per te ha compiuto un lungo viaggio,
per te ha affrontato lunghi giorni di dolore.
E tu, donna, che nascondi con la tintura
i tuoi capelli grigi, non parlare con l’amica,
per un attimo ignora il pettegolezzo di casa tua,
il riso malizioso di chi ti ascolta.
Fermatevi, A5506 è alla fine del viaggio,
quest’uomo che ha l’angoscia addosso
di tanti affetti perduti,
che ha dentro di sé un infinito silenzio
dove può spegnersi il mondo,
vi ha dato tutta la pietà di cui è capace.
Parole senza suono s’innalzano dalla fossa
ma nessuno di noi d’ora innanzi
potrà fare a meno di ascoltarle.
Quante volte il vagone
corre lungo la tratta Oswiecim-Cracovia
quante volte trabocca di gente
con la borsa della spesa
quante volte donne e uomini del paese
riposano negli scompartimenti
dopo un giorno di lavoro
quante volte giovani innamorati
si guardano nel profondo
mentre vasti campi di morte
sta attraversando il treno.
A5506 donaci la tua misericordia
a volte è difficile ma non impossibile capire.

Teo Ducci, a Milano, ricorda le colonne di deportati che s’avviavano, chi al lavoro forzato negli stabilimenti del campo, chi verso il luogo da cui quel giorno non avrebbero fatto più ritorno.

Ma in quest’uomo che attraverso le assi sconnesse del vagone piombato osservava la pianura che si estendeva attorno al centro abitato diOswiecim, ciò che sorprende è un’immagine che dopo più di cinquant’anni, ancora ben nitida, custodisce nella mente.

Forse era veramente un cavaliere, forse soltanto un’allucinazione prodotta dalla sete e dalla fame. Ma una cosa è certa. Teo ha saputo reagire all’orribile condizione in cui si trovava scoprendo  nel paesaggio grigio e malinconico della pianura polacca, una visione bellissima e stupefacente.

Il ticchettio dello strumento che segna la velocità del convoglio diminuisce progressivamente il ritmo. Il treno supera l’incrocio  di uno scambio, poi di altri ancora, rallenta la corsa fino a fermarsi. Un cartello grigio di fumo e inquinamento informa che la Stazione di Oswiecim è raggiunta. 

È qui che dobbiamo scendere. Auschwitz-Birkenau è sotto i nostri piedi.